1. |
E dove andrai, Luchino?
04:18
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E dove andrai Luchino,
con la moto di tuo padre dove andrai?
Andrai dove noi non abbiamo il coraggio –
e valicherai l’Appennino
sopra gli svincoli che danno vertigine,
e nelle gallerie dove avanzano a piedi
i barboni col carrello del Lidl.
Qui tuo fratello
ha lasciato due figli,
un bar trattoria da rimettere a posto,
e un poco di debiti.
E un bosco stento, che dà sulle briglie
di un fosso inculento.
Qui tua cognata ti accoglie con gli occhi di sempre.
Dietro al bancone
le foto di lui,
con le sue coppe vinte.
Tu non giocavi a pallone, Luchino,
tu sparivi
con le espadrillas strappate, il tuo Drum per rollare.
Tu non andavi a pescare.
Tu andavi nei boschi, Luchino,
a farti coccolare.
E dove sarai al mattino,
in quale spiazzo rabbrividirai –
fra i carboni spenti lasciati dai camper
i barattoli rotti e le suole da scarpe.
E rischierai gli occhi, Luchino,
su quel che noi non possiamo vedere
sul rosso cupo, tremendo rubino
delle case cantoniere.
Quando si sparge la voce
che sei arrivato in paese,
noi siamo gli ultimi
a venirlo a sapere:
il primo è il gatto che solo da te
si fa prendere,
e da Beniamino, che adesso ha otto anni,
e per lui sei Salgari.
Eppure eravamo giù al bar
per venirti a cercare,
con il rimpianto di donne ingrassate –
e dal bagno esterno, se andiamo a pisciare
si sente il torrente passare:
sembra incredibile, a noi, da qui, che arrivi al mare.
E butterai gli occhi Luchino
sulla ruggine delle scarpate,
dove non ci attentiamo,
e dormirai nelle torri vuote.
E sentirai, dal camino
la voce delle famiglie scomparse –
di notte i sassi che franano, e squarciano
le reti marce.
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2. |
Canzone del melo
04:03
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Era il tuo albero, il melo.
D’estate restavi a guardarlo.
Era coperto di vespe,
che ronzavano attorno alle mele
rotonde, e facevano buchi;
tu lo guardavi, contento.
Adesso stai dimenticando
la sedia su cui ti sedevi,
le scuole che ha fatto tua figlia,
e da quand’è che non è più passata -
se era sposata, di chi era sposa?
Ricordi che avevi pretese, poi cosa?
Sai di far parte di un’onda:
eccola, che si ritira
dalla veranda di casa,
si muove con l’ombra
dai rami del melo alle dalie,
alla siepe, alla ghiaia di tutti - nuovi
proprietari, nipoti arroganti,
bambini che non hanno nome,
ospiti, amanti, turisti di un giorno,
la cui faccia ti dice qualcosa, ma cosa?
E adesso, che non hai rimpianti,
solo il buono ti torna alla mente,
e gli amici ti parlano
come se fossero vivi,
tu ti chini a piangere -
e qualcuno da fuori, vedendo,
penserebbe che tu stia pregando.
Era il tuo albero, il melo.
Potato male, impreciso,
storto e ricolmo, splendente.
Fra te e lui c’era un velo di luce.
Faceva male a guardarlo.
I frutti eran come il futuro,
ma adesso l’hai dimenticato.
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3. |
È tutta una morte
03:05
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Una morte, è tutta una morte
invadente
insinuante
dalle lenzuola e da lì alle nostre fibre, vedi ovunque
l’invadenza è sottile
è l’Angelo del Male che ce la fa subire –
In piccole dosi, profondi respiri
solo cliccando, o navigando un poco
o girando i marciapiedi.
Una morte, è tutta una morte
invadente
insinuante
dalle lenzuola e da lì alle nostre fibre, vedi ovunque
l’invadenza è sottile
è l’Angelo del Male che ce la fa subire.
Ancora qui, ancora zoppicanti
dentro macchine tirate a lucido
sopra gomme che si sgonfiano all’attrito,
ancora qui cercando versi veritieri
scintille di vita dentro i postumi di ieri.
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4. |
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Sogno di scendere con una barca
lungo un fiume che sta sottoterra.
Sono un eroe della mia stessa infanzia;
con me c’è un morto su una barella.
E sono solo, e mi sento solo
non mi è compagna la persona morta
mentre scivolo nel sottosuolo
nell’acqua fetida che ci porta.
Avverto un senso di grande urgenza
perché io so che in certi climi caldi
un cadavere non si conserva
non dura molto prima che si squagli.
Sento l’odore del disfacimento.
Sento l’odore del disfacimento.
Sento l’odore del disfacimento.
Poi mentre siedo e guido la mia barca
e mi affretto, in mezzo al fiume –
nelle narici la carne marcia
nella corrente, nel putridume
mi accorgo che l’odore non è il morto:
quello che puzza è il mio corpo vivo.
Quello che puzza non è il morto,
quello che puzza è il mio corpo vivo.
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5. |
Canzone delle gazze
03:38
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Parcheggi sotto la quercia,
t’infanghi le scarpe scendendo,
ti guardi le unghie,
e lo aspetti;
le gazze ti guardano.
Così dozzinali e importune ti sembrano –
ti sembra che ridano.
Che cosa ti aspetti che dica?
Che ti dica “amore mio?”
Le gazze ridono
di quel ta-ta-ta-ta che fanno, ta-ta ta-ta,
come sparassero.
Le querce aspettano che i fulmini cadano -
ma non arrivano.
Aspetti la campana, e non suona,
Aspetti la pioggia, e non tuona,
in questa giornata che è grigia, e corrotta di noia.
Aspetti la campana, e non suona,
Aspetti la pioggia, e non tuona,
in questa giornata che è grigia, e corrotta di noia.
Che cosa ti aspetti che faccia,
di questa giornata corrotta,
amore mio,
che lascia le gazze soltanto
a riderti dietro?
Aspetti che parli, e non parlerà -
parole che salvino non ne ha.
Il giorno in cui dovrai salvarti, lui non ci sarà.
Aspetti che piova, e non pioverà -
ma se aspetti che differenza fa?
Le gazze ti ingiuriano e ridono, Ta ta ta ta.
La quercia è più muta di Dio -
le gazze ti sparano, amore mio,
appena tu rimonti in macchina: (Ta ta ta ta)
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6. |
Quante case spente
04:32
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“Quante case spente
senza bestie e gente
ci saranno?” – dice:
“Le finestre mute,
sorti sconosciute,
tutti i tronchi andati
sotto un rampicante…
Ma non è importante” –
dice,
poi lascia
le tue
mani.
Nasconde le sue in tasca
come luci spente.
“Questa terra è nostra
ma è terrificante”
dice – “Io comunque parto,
non è più importante”.
Così
tu sai
che non lo è
mai stato.
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7. |
Canzone della vedova
05:12
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Non ho eretto un altare
nascosto,
non mi lamento, non prego –
fumo sul lago,
se ho voglia
se è vuoto il mio Posto.
Annuso i castagni
sull’asfalto nero,
la sabbia che fa scivolare,
la diga.
Non sarò vedova di lui, né di nessuno.
Di quella fontana asciugata
da un giorno a quell’altro,
riempita mai più; di quei pesci
spariti, quei peschi,
quei noci in due file
col tavolo per il ping pong
là nel mezzo, imbarcato,
perché ci scocciava portarlo
al coperto, di fianco al trattore –
e così marcì,
come tutto.
Non sarò vedova di lui, né di nessuno.
Di questo lo so d’esser vedova,
della sua Wehrmacht di plastica,
dell’ocra nipponico, del grigio sovietico,
dei verdi marines
e di Skeletor,
dei Masters scordati nei muri
in cui le bisce facevan la muta;
della sua Vespa, e più tardi
la sua Citroën,
del suo divano di juta, dei dischi, e del cilum –
di quello son vedova, e basta.
Non mi lamento, e non prego.
Se fumo sul lago, e non rido
può darsi che sian fatti miei.
Non sarò vedova di lui, né di nessuno.
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8. |
Canzone dei salici
03:54
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Temo l’odore dei salici,
amo quello delle querce.
Riconosco le tue scarpe
sopra le foglie marce.
Tu arrivi nel sole
con gli occhi storditi
in cui non c’è pena,
fra i salici caldi e la rena.
Di cosa sei testimone?
Cos’è che ti ha spezzato gli occhi?
Ah, non importa dirmelo
Resterò zitta anch’io.
Se vuoi seguirmi, seguimi,
Se vuoi deludermi, sia –
resta che nuda e scalza
Catia se ne andrà via.
Catia rinuncia a un marito,
al martirio, a una posizione -
Catia ti chiede soltanto
un po’ della tua discrezione
E di non dirlo agli altri,
nemmeno a chi tu sai –
tanto lo so che amarmi
è più di quel che puoi.
Perciò io resto muta,
mentre ti siedo accanto.
Non affannarti, Luca,
tanto lo sai che intanto
Passeranno i mesi stanchi
passeranno gli anni invano
piangeranno piano i salici
piangenti,
scorreranno i giorni lenti,
sisaliranno i rimpianti
sull’acqua che va all’indietro anziché
avanti.
Risaliranno i rimpianti
correranno gli anni stanchi
piangeranno dolci i salici
piangenti,
e noi non ci staremo attenti.
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9. |
Canzone dello specchio
03:44
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Tu sei in piedi, attonito –
le ciglia spalancate,
gli occhi intenti –
la lingua sospesa
tra i denti.
Davanti hai una faccia,
indubbiamente.
Che cosa ne rammenti?
Cerchi di concentrarti:
qualcuno ti ricorda.
Come una fidanzata
di cui non sai più il nome
e non riconosci
al supermercato –
un volto che ti sfugge,
che hai dimenticato.
Ancora un altro po’
e il vetro sarà opaco.
Tu ti convincerai
di avere già pagato.
E resterai padrone
dell’ombra di te stesso
di un urlo senza eco
di un occhio sospettoso,
e l’altro cieco.
Ti sei fatto il culo e
nient’altro, giorno su giorno
ti sei divorato –
guscio, scorza, polpa.
Non è rimasto niente
a cui dare la colpa.
Ti chiedi che cos’hai,
ti guardi nello specchio.
Non ti vedrai mai più
se non ti volti adesso.
Ti chiedi che cos’hai,
ti guardi nello specchio.
E non ti avrai mai più
se non rinunci adesso.
Ti arrampichi su un cumulo
di sporche vessazioni
la fede non ti serve
se contano le azioni.
Tu credi nel mercato
che si fa cavalcare
ma è finché tu puoi scendere
che lui ti lascia fare.
E disimpari a leggere
ora che sai ringhiare,
e in fondo non sei l’ultimo
né il primo
a crederti speciale.
Ti chiedi che cos’hai,
ti guardi nello specchio.
Non ti vedrai mai più
se non ti volti adesso.
Ti chiedi che cos’hai,
ti guardi nello specchio.
E non ti avrai mai più
se non ti volti adesso.
Ti è stato chiesto sempre
un prezzo più salato
gustare carne umana
eccoti apparecchiato.
Indifferente al sangue
sensibile a quisquilie
fiscali,
tu getti le briciole di pane
agli squali.
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10. |
(Emilia)
01:28
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Mia cara terra in cui vivo spiantato,
perdonami se puoi, che non ti canto.
Già paranoica ben t’hanno cantato,
modo io non avrei se non rimpianto.
Beni e miserie hai accumulato,
stolti rancori in luogo del tuo incanto
Eppure c’è chi ancor spaccia tu sia
altro che vuota e vacua nostalgia.
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11. |
La gente che vive
02:08
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Chiedi che basti una doccia per essere nuovo
per essere assolto da tutta la vita che hai fatto.
Ma la vita che hai fatto è migliore di quella che fai.
E c’è l’alba che adesso ti coccola dalle finestre
e accarezza mutande e magliette e vergogna e lenzuola.
C’è tuo figlio che vuole gli compri una macchina nuova.
Non capisci perché la tua terra ti sembra un rimpianto –
la calpesti, ci affondi, e non riesci a vederla davvero,
e ti chiedi com’è che ci vive la gente che vive.
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12. |
Barbäj
04:47
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L’era töt möj.
Töt pien ’ed föj.
Ün barbaj
’ed lüs che mai.
’Io pensä ch’a i’era propria
stöf’d’vevr acsè
d’ärmagnr’ ndre
mai saver
gnanc s’a sün mè
‘ndär d’ansüna bända, där
la testa in t’e mür.
L’è dre a gnir scür
Mör l’estä
Anc quàl t’u sä
Pär che gnent ’n sia stä pö ’d gnent, dai
Fa’ sö ch’e föj!
’n star pianger Löj...
’sa vöt mai
L’era ün barbaj
’cma l’è gnü, ’desa tl’a ’bü, dai.
(C’era tutto bagnato / Tutto coperto di foglie / Un barbaglio / di luce mai visto. / Ho pensato che ero proprio / stanco di vivere così / Di rimanere indietro / Senza sapere / nemmeno se sono io. / Non andare da nessuna parte, battere / la testa contro il muro. / Sta venendo buio / Muore l’estate / Anche questo lo sai / Pare che niente non sia stato più di niente, dai / Riavvolgi quel foglio / Non rimpiangere luglio / Cosa vuoi mai / Era un barbaglio / Com’è venuto, adesso l’hai bevuto, dai.)
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Ismael Reggio Emilia, Italy
Gli Ismael sono una rock band reggiana che ad oggi ha pubblicato quattro album e un EP, caratterizzati dalle liriche di Sandro Campani (voce e chitarra del gruppo e scrittore con tre pubblicazioni all'attivo) che incontrano le trame sonore rock e folk del resto della band (Giulia Manenti, Barbara Morini, Luigi Del Villano, Piwy Del Villano). ... more
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